Sanniti

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Sanniti, archeologia dell’antico Sannio
dell’architetto Davide Monaco.

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sannitiIl territorio abitato dai Sanniti, nella parte centro-meridionale della penisola italiana, era chiamato dai suoi abitanti Safinim i quali designavano se stessi come Safineis. In latino Safinim divenne per assimilazione Samnium, da cui i Romani derivarono il termine Samnites per designare gli abitanti.

I Greci li chiamavano Saunitai e la loro terra Saunitis1.

La tradizione antica vuole che popolazioni ataviche fossero immigrate in quelle terre dove precedentemente vivevano gli Opici o Osci (più esatto Oschi) e che ne avrebbero assimilato gradualmente gli usi e la lingua, l’Osco appunto. Si crede che fossero arrivati nel Sannio dalle terre limitrofe dei Sabini, di cui sarebbero stati i discendenti2 ai quali, secondo Strabone “… si sono forse aggiunti coloni laconici e che per questo sarebbero di stirpe ellenica. Inoltre anche i Pitanati (gli abitanti di uno dei distretti di Sparta, ma anche di Taranto, colonia laconica della Megale Hellas) si sarebbero aggiunti ad essi. Sembra che questa spiegazione sia stata inventata dai Tarentini, che volevano così lusingare i loro vicini a quel tempo assai potenti ed insieme guadagnare la loro amicizia, dal momento che i Sanniti potevano mettere allora facilmente insieme 80.000 soldati di fanteria e 8.000 cavalieri …” (Geo. VI,12).

Le popolazioni osco-umbre, che includevano sia i Sanniti che i Sabini, si erano quindi sviluppate dalla fusione di abitanti del luogo con infiltrazioni indoeuropee ma, in seguito alla colonizzazione greca del sud della penisola italiana, anche mescolanze coloniali elleniche riconducibili agli ultimi periodi dell’Età del Ferro.
Nel VII secolo a.C. esistevano ormai popolazioni distinte dalla primitiva radice comune umbra e nel VI secolo a.C., se non prima, il popolo storicamente noto come Sanniti deve essere stato chiaramente identificabile ed aver avuto il controllo incontrastato del Sannio.

IL VER SACRUM

Le ampie aree pianeggianti dai contorni limitati e modellati dalle pendici delle impervie montagne del Sannio ver_sacrumfavorirono quindi l’insediamento di queste popolazioni stanziatesi probabilmente a causa di un Ver Sacrum o Primavera Sacra, una manifestazione divinatoria attuata dalle popolazioni antiche e basata su emigrazioni forzate3.
Che vi sia stata all’inizio un’impostazione sacrale di tali riti sarà forse vero ma in seguito questa prassi si rivelò anche un ottimo metodo per diminuire la pressione demografica in talune zone della penisola favorendo la colonizzazione delle altre aree limitrofe. Analizzando le procedure dei riti sacri dedicati alle divinità dell’Olimpo italico è possibile intuire come venivano a formarsi le singole tribù sabelle. Ciò grazie anche alla tradizione tramandataci dagli scrittori antichi che descrissero come questo rituale-religioso, il Ver Sacrum appunto, spingesse i popoli di lingua osca ad inoltrarsi sempre più lungo gli Appennini, discendendo periodicamente alle pianure su entrambi i versanti. Secondo queste tradizioni il rito arcaico prendeva forma nel momento in cui avversità di carattere fisico come malattie e pestilenze oppure psicologico come il succedersi di avvenimenti negativi, spingessero una determinata tribù a sacrificare i primogeniti nati nel periodo primaverile al dio Mamerte (Marte).
In verità il sacrificio consisteva nel rendere, coloro che dovevano essere sacrificati, dei sacrati ovvero persone offerte al dio in una forma però che rispettava sia l’idea del sacrificio sia le esigenze di crescita della tribù stessa.
In questo modo tali individui vivevano fino all’età adulta come elementi particolari con un destino già segnato. L’obbligo era di lasciare il proprio gruppo di appartenenza per cercare nuove terre dove insediarsi, muovendosi sotto la guida di un animale sacro alla divinità. L’animale guida poteva essere rappresentato da un toro, un lupo oppure un cervo ed il gruppo emigrante lo seguiva nel suo errare e si stabiliva nel luogo che pensavano l’animale avesse indicato.

A compiere questo genere di migrazioni dovettero essere in modo particolare quei guerrieri-pastori tipici di tante etnie mediterranee. Anche l’animale guida ha i suoi equivalenti: la sua esistenza è nota presso altre comunità indoeuropee.
L’origine remota di tale pratica si può forse ricercare in qualche cerimonia connessa con la migrazione stagionale delle greggi. È molto probabile che con il passare del tempo non si facesse più ricorso ad un animale reale ma i Sacrati marciassero sotto un vessillo su cui l’animale era raffigurato.
Nelle tradizioni dei popoli oschi, l’inizio dei viaggi sacri cioè il punto geografico da cui partivano i Sacrati per colonizzare altri territori, era da identificarsi in un luogo della Sabinia in cui dimorava un oracolo nei pressi di una zona ricca di acque solfuree, probabilmente l’attuale Paterno tra Città Ducale e Antrodoco. In quelle terre una volta vi era stato un grande lago determinato dall’allargarsi del letto del fiume Velino, in mezzo al quale esisteva una verde isola galleggiante che era stata indicata anticamente da quell’oracolo ai profughi provenienti da Dodona, in Grecia, come il luogo dove fondare la nuova città di Cutilia.
Il “laghetto sacro di Cutilia”, nell’odierno territorio di Rieti, venerato per la sua isoletta natante e ritenuto dagli antichi come l’ombelico d’Italia, fu quindi il luogo da cui, secondo Festo, partirono 7000 Sabini con a capo Comio (o Comino) Castronio, guidati da un bove, l’animale sacro che avrebbe indicato la strada da percorrere.
Interpretando i segni divini che il bove, influenzato dal dio Mamerte (Marte per i Latini, Mamerte per gli Oschi ed Ares per i Greci) avrebbe manifestato, i Sacrati, dopo un lungo cammino, si fermarono nella terra degli Opici, presso un colle chiamato “Samnium” (leggi l’articolo L’ANTICA CITTÀ CHIAMATA SANNIA di Franco Valente) da quella gente, in un’area pianeggiante molto fertile e ricca d’acqua. Sempre secondo Festo, i Sanniti avrebbero tratto il proprio nome da quel colle.
La figura di Comio Castronio che guidò i primi Sanniti nel loro futuro territorio acquisì con il passare del tempo l’aureola della miticità, tanto che l’immagine iconografica del condottiero-sacerdote che veglia il bove a riposo venne raffigurata nel I secolo a.C. come simbolo etnico sulle monete della Guerra Sociale.

LE TRIBU’

Il popolo sannita propriamente detto era formato dall’unione di quattro tribù, come spesso elencano gli scrittori antichi: i Pentri, i Carricini, i Caudini e gli Irpini. In seguito, forse con la nascita della Lega Sannitica come organismo di coordinamento militare già dal V secolo a.C., altre tribù stanzianti nell’Italia centrale si unirono ad essi. Tra queste i Frentani. La tribù che costituiva il cuore del popolo sannita era quella dei Pentri, che popolava il centro del Sannio nel territorio compreso tra la catena montuosa delle Mainarde a nord ed il massiccio del Matese a sud. Forti e temibili, erano la spina dorsale della nazione. Nell’ultimo periodo delle guerre contro Roma ressero quasi da soli l’urto degli eserciti consolari che si infrangevano contro le difese occidentali del Sannio. Città pentre erano Aesernia, Allifae, Aquilonia, Aufidena, le due Bovianum, Fagifulae, Saepinum, Terventum e Venafrum.
I Carricini erano la tribù situata più a nord, stanziata nei territori meridionali dei monti della Maiella ai confini con i Peligni. Sembra essere stata la meno numerosa. Città carricine erano Cluviae e Juvanum.

Chatelaine dalla necropoli di Alfedena (AQ)

Chatelaine dalla necropoli di Alfedena (AQ)

I Caudini erano i più occidentali e quindi i più esposti all’influsso greco della Campania. Dalla gran quantità di reperti di buona fattura trovati durante gli scavi archeologici si evince la notevole raffinatezza di vita e costumi in un periodo in cui altre popolazioni limitrofe, tra cui i Romani, erano lungi dal possedere lo stesso tenore di vita. Vivevano nel territorio compreso tra le montagne che delimitano la pianura campana, il Monte Taburno e i Monti Trebulani, nella valle del fiume Isclero e lungo il tratto centrale del Volturno. Tra le città caudine ricordiamo Caudium, Caiatia, Cubulteria, Saticula, Telesia e Trebula.
Gli Irpini abitavano la parte meridionale del Sannio, nel territorio delimitato dalle vallate dell’Ofanto, del Calore e del Sabbato. Come i Caudini anch’essi usufruirono dell’influenza della vicinora civiltà della Magna Grecia.
Gli Irpini erano chiamati uomini-lupo ed il loro nome deriva da hirpus che in osco significa “lupo”. Tra le loro città principali ricordiamo Abellinum, Aeclanum, Compsa, Malies o Maloenton (chiamata Malventum dai Romani per le numerose sconfitte subite a causa dei Sanniti e, in seguito alla guerra contro Pirro e ad una memorabile quanto inaspettata vittoria dell’Urbe contro le schiere epirote nel 275 a.C. venne rinominata Beneventum) e Trevicum.
I Frentani abitavano le terre di pianura che dalle falde appenniniche del Sannio arrivavano fino al mar Adriatico, tra i territori dei Marrucini a nord ed i Dauni a sud. Erano i territori più orientali sotto il controllo sannita e si estendevano per una fascia di circa 20 chilometri dalla costa verso l’interno.

La maggior parte dei Frentani era per lo più dedita alla pastorizia ed all’agricoltura ed erano in prevalenza stanziati verso l’entroterra. Sapevano andar per mare ma non avevano una vera e propria flotta o almeno nulla ci è pervenuto dalle fonti storiche. Eressero centri abitati sulla costa e ne praticavano il controllo applicando dazi e tributi ai naviganti-mercanti che frequentavano i loro approdi. Secondo il geografo greco Strabone (V.4.2), costruivano le loro case adattando ad abitazioni sulla terraferma le carcasse delle navi naufragate. Città frentane erano Anxanum, Geronium (forse l’arcaica Maronea), Sicalenum, Uscosium e Larinum, quest’ultima, in verità, considerata una cittadina di “frontiera” cioè era formata da una cittadinanza mista composta sia da Pentri che da Frentani. Sulla costa, insediamenti frentani erano Buca, Cliternia, Histonium e Hortona.

Secondo gli autori classici, erano sicuramente di stirpe sannita anche i Marrucini, i Lucani, ed i Campani. I Marrucini, stanziati a nord dei Frentani, avevano come capitale del Touto l’insediamento di Teate, l’odierna Chieti. I Lucani si insediarono, forse sempre a causa di un “Ver Sacrum”, nei territori compresi tra gli Irpini e le colonie della Magna Grecia di Metaponto e Sibari. Occuparono le terre degli Enotri a sud e si spinsero a nord verso la Campania e le colonie greche di Poseidonia (Paestum) e della foce del fiume Sele. La lingua osca era la stessa ed osche erano anche le credenze e la religione. Uno dei più importanti santuari, quello di Rossano di Vaglio vicino l’odierna Potenza, era dedicato alla Mefite, una deità tutta sannitica. Ma con i cugini del nord non vi era molta unità d’intenti. Le vicende storiche tra i Lucani ed i touti dei “Sanniti settentrionali” sono state sempre segnate da alterni periodi di amicizia e di grandi divergenze createsi per problemi territoriali ed economici.

I nascosti interessi romani verso gli sbocchi commerciali dell’Adriatico e dello Ionio, supportati da interventi militari celati sotto sembianze pacificatorie, divelsero totalmente qualsiasi rapporto tra Touti riuscendo ad aizzare l’uno contro l’altro i diversi gruppi territoriali, distruggendo così le antiche fratellanze. Questo inserirsi tra dispute “familiari” allo scopo di trarne vantaggio, portato avanti abitualmente e senza scrupolo dai Romani, riuscì persino con il popolo dei Campani, considerato una “costola” dei Sanniti ed affine ai diversi popoli oschi.
Quando nel V secolo a.C. la Lega Sannitica si spinse verso i territori che dalle falde dei monti del Matese si aprivano fin verso le coste tirreniche controllate dalle colonie degli Etruschi e dei Greci, riuscirono a trasformare le sparse popolazioni indigene di quelle terre in una unità tribale. Elevarono la cittadina etrusca di Capua, da fortezza-granaio difesa da un popolo colonizzatore, alla capitale dei Campani, cacciando l’etnia etrusca a vantaggio delle popolazioni natie. I rapporti commerciali e di amicizia tra i Touti stanziati e confinanti in quell’area vennero ad incrinarsi quando iniziarono a farsi pressanti gli interventi romani per la salvaguardia dei propri interessi economico-espansionistici verso il sud dell’Italia, con la nota tattica del “dividi et impera”.

LA SOCIETA’

I Sanniti non hanno lasciato, o almeno non ci sono pervenuti, documenti o codici o semplici scritti che possono oggi aiutarci a descrivere il loro assetto sociale, politico ed economico. Solo le fonti classiche ci permettono, congiuntamente alle attività archeologiche, di ricostruire per grandi linee quella che poteva essere la vita quotidiana di questo antico popolo.
Il Sannio, al pari di altre regioni, ebbe un processo di sviluppo alquanto lento fino al periodo delle guerre contro Roma. Il contatto con i Romani, o meglio lo scontro con i Romani, sviluppò e rafforzò molto la loro concezione politica di Stato e, di conseguenza, si ebbe una repentina rinascita della loro organizzazione sociale, come il contatto con gli Etruschi della Campania migliorò l’attività commerciale e lo sviluppo culturale, e la civiltà greca influenzò le convinzioni religiose. Nella società sannita non esistevano ricchezze concentrate nelle mani di pochi personaggi che calamitavano le attività produttive a discapito del resto della popolazione. Vi erano nuclei familiari particolarmente agiati che emergevano sulla massa contadina e dedita alla pastorizia e che spesso caratterizzavano determinati territori del Sannio, ma la loro agiatezza veniva ripartita con il resto della popolazione, quasi a sottolineare l’importanza che i legami di gruppo avevano nella mentalità politica sannita a discapito dei personalismi e delle sopraffazioni. Infatti non esistevano latifondisti o proprietari di grandi appezzamenti terrieri per il semplice fatto che i territori compresi nei “pagi” erano sfruttabili da tutti coloro che possedevano animali da far pascolare nelle enormi distese verdi degli altopiani appenninici, pagando all’amministratore statale dei luoghi il giusto compenso.

Il declino dello “Stato Federale del Sannio” avvenuto in conseguenza delle guerre contro Roma, favorì l’adozione di un atteggiamento consono alla mentalità dei “nuovi amministratori” che propendevano verso un tipo di economia basata più sull’iniziativa individuale che su quella collettiva. Per Roma era più facile tassare un latifondista che una moltitudine di pastori. I Sanniti dovettero così adeguarsi per continuare a vivere in un mondo dove le antiche regole degli avi erano state abrogate.
La schiavitù non dovette essere una pratica molto seguita proprio per il metodo in cui la società sannita era organizzata. Tutti avevano la massima libertà di affermare le proprie opinioni, tanto da criticare apertamente nelle assemblee i propri magistrati. Per questa ragione, i Sanniti ebbero una evoluzione sociale diversa rispetto alle altre popolazioni della penisola, un’evoluzione che portò queste genti a cognizioni politiche che rispettavano “in primis” la famiglia ed il territorio. Erano questi i fondamenti dell’ideologia politica sannita, e dalla famiglia con il suo territorio si giungeva all’idea di unità popolare e quindi di Stato.
Sia il clima che la diffusione della pastorizia imponevano ai Sanniti l’uso di indumenti di lana che veniva lavorata dalle donne con il fuso per poi essere colorata e venduta. Gli ornamenti erano solitamente di bronzo, qualche volta d’argento o d’oro. La donna portava anelli, collane girocollo con pendenti e bracciali, come quelli con terminali riproducenti cerchi e spirali (chatelaine) ritrovati in molte sepolture sannite. L’uomo indossava bracciali bronzei con raffigurazioni varie, come animali e forme geometriche ed essendo particolarmente attento all’aspetto ed alla prestanza fisica, usava indossare candide tuniche strette alla vita con un cinturone metallico o di cuoio duro, portato in modo da permettere tutti i movimenti.
Proprio il cinturone era l’emblema dell’uomo sannita, era il segno distintivo della raggiunta maggiore età. Aveva valenza sia civile che militare ed era formato da una lunga striscia metallica, cesellata e borchiata, chiusa con fermagli raffiguranti soggetti vari, anche mitologici. L’interno era foderato ed imbottito con cuoio o tessuto, fermato al metallo con ribattini e graffe. Numerosi sono i cinturoni ritrovati nei corredi delle sepolture in tutto il Sannio.
Erano ottimi guerrieri e usavano dimostrare la propria baldanza fisica con giochi di combattimento che avvenivano durante feste e banchetti ma anche in occasioni di manifestazioni funebri per la commemorazione di importanti personaggi. Di solito la lotta finiva con la messa a terra dell’avversario. A volte questi giochi servivano anche a scegliere i giovani migliori per maritare fanciulle di particolare bellezza, in modo da evitare contese sfocianti in modi molto più tragici.
I Sanniti erano monogami ed alla moglie era affidato il compito di educare i figli e governare la casa. Era una società di tipo patriarcale.

I GLADIATORI

Il contatto con i Romani trasformò i combattimenti e le rappresentazioni di forza, svolte in rare importanti occasioni, in tutt’altra cosa. Entusiasti di queste competizioni, i Romani le importarono nella loro società trasformandole in avvenimenti agonistici di particolare violenza, il più delle volte sadici. Dopo l’annessione del Sannio a Roma, la lotta tra guerrieri in un’arena divenne lo sport nazionale.
Erano nati i Gladiatori.

Tra le più antiche testimonianze di un combattimento gladiatorio svolto a Roma si ricorda quello avvenuto nel Foro Boario nel 264 a.C. organizzato dai nobili fratelli Marco e Decimo Giunio Bruto per commemorare la morte del padre. Da allora i “Giochi Gladiatori”, chiamati “munus”, ebbero un enorme successo tanto che solo pochi decenni dopo, nel 216 a.C. in occasione dei funerali di un importante uomo politico romano, furono più di 40 i gladiatori che si affrontarono in combattimento e per le esequie di Publio Licinio nel 183 a.C. furono più di cento a scendere nell’arena.
Queste competizioni all’inizio venivano svolte all’aperto, in recinti lignei dove gli spettatori si accalcavano a ridosso degli sfidanti. In seguito, quando i combattimenti d’arena divennero gare seguitissime dai Romani, furono costruiti veri e propri monumenti dove veniva esaltata tutta la violenza che questi giochi esprimevano, tanto da arrivare a costruire nel I secolo d.C. l’arena più imponente di tutti i tempi, il Colosseo.
All’inizio, intorno al III secolo a.C., i combattimenti gladiatori venivano strettamente associati ai Sanniti, quando per “samnes” si indicava una particolare armatura gladiatoria e solo in seguito furono introdotti altri tipi di combattenti come i Traci, che furono importati da Silla ed i Galli grazie a Giulio Cesare.

Fino alla fine del II secolo a.C. i termini “gladiatore” e “sannita” erano sinonimi.
Tra i gladiatori sanniti più famosi si ricorda Lucilio I di Isernia, detto l’Aesernino, che alla fine della carriera divenne “Doctor” cioè addestratore di gladiatori. Le sue gesta nell’arena risalgono al periodo dopo la “Guerra Sociale” cioè intorno alla metà del I secolo a.C. La sua palestra gladiatoria era a Capua e, per la concomitanza dei tempi e dei luoghi, non si esclude che possa essere stato uno degli addestratori di un grande gladiatore tracio, Spartaco.

NOTE

(1) Il nome dato dai Greci pare abbia origine da un tipo di arma utilizzata dai Sanniti in guerra. Era un tipo particolare di lancia, dal fusto sottile e dalla cuspide formata da un appuntito ferro bilama che ne influenzava l’assetto durante la gittata. Quest’arma, quasi un lungo coltello unito ad una sottile asta, era efficiente alle brevi distanze, prima di affrontare il nemico con la spada. In combattimento i guerrieri sanniti di solito ne portavano una coppia mantenuta nella mano il cui braccio sorreggeva lo scudo. I Greci chiamavano quest’arma “saunia” per cui il nome Sanniti.
(Sull’argomento vedi anche la prima parte della sezione dedicata alle monete sannitiche, la pagina dedicata all’antica città di Sannia e l’articolo di John Patterson).
2) Un’epigrafe osca di Pietrabbondante (iscrizione Vetter 149) e una moneta del periodo della guerra sociale riportano la scritta SAFINIM, cioè la denominazione osca corretta del nostro popolo. Negli ultimi decenni si ci è chiesto se la forma italica SAF può essere una derivazione del più antico SABH. Infatti “safinim” “… potrebbe essere una distorsione del nome “sabini”, per il fenomeno dell’assimilazione imperfetta di un suono precedente al seguente, in cui le consonanti labiali passano innanzi ad “n” nella nasale e quindi potremmo aver avuto “Sabini – Sabnites – Samnites…”
(Di Geronimo – Studi di toponomastica sannita – Napoli 1962)
(3) Fra tutte le antiche leggende e tradizioni delle genti dell’Abruzzo e del Molise quella relativa alla migrazione per la quale i Sabini divennero Samnites è la più ampia e la più circostanziata. Essa merita di essere riferita in tutti i suoi particolari, così come ci è stata trasmessa dagli antichi, e di essere integrata per quel tanto che l’integrazione può contenere elementi di una realtà storica; infatti l’esodo dei Sabini va inteso come un episodio, rimasto tenace nella memoria degli emigrati, della grande diaspora che disseminò genti sabelliche dal centro della Penisola in gran parte dell’Italia centrale e meridionale.
Tra Sabini e Umbri era scoppiata una contesa. Poiché gli uni e gli altri erano essenzialmente pastori – almeno quei nuclei delle due tribù che, confinando, non potevano non occupare le conche dell’aquilano e del reatino – c’e da supporre che la contesa fosse a causa dei pascoli. Nella rissa i Sabini erano usciti vittoriosi, ma subito dopo la vittoria si erano verificate calamità di ogni genere, sicché era sembrata evidente una avversa volontà divina. I Sabini interrogarono allora un oracolo che esisteva – si è supposto – tra Antrodoco e Cittaducale, presso Paterno, località ricca di acque sulfuree. Nell’antichità vi era esistito un solo lago, ma assai grande, formato dall’impantanarsi del Velino, in mezzo al quale galleggiava un’isoletta mobile. L’isola era stata indicata agli Aborigeni dall’oracolo di Dodona come il luogo presso il quale avrebbero dovuto fondare la loro città, Cutilia. Successivamente i Sabini, sostituitisi agli Aborigeni, avevano fatto della zona un loro centro religioso, dotato di un veneratissimo oracolo. Fu quell’oracolo, appunto, a rivelare che causa delle calamità sabine era l’ira di Marte, principale divinità degli Umbri. Per placarlo, ogni maschio che avesse visto la luce al ritorno della buona stagione avrebbe dovuto essere a lui consacrato. Ora, consacrare equivaleva a sacrificare, immolare in onore del dio, e poiché l’oracolo non specificava di qual sorta di maschi fosse questione, si può ben immaginare l’animo dei Sabini nell’ascoltare il responso. Tuttavia, interrogato nuovamente, l’oracolo precisò che a Marte, dio della forza vitale (e non ancora dio della guerra), sarebbe bastato il sacrificio di agnelli, capretti e vitelli, ma che i nati dell’uomo in quella primavera fatale, giunti alla piena adolescenza, si sarebbero dovuti staccare dalla tribù e, seguendo segni che il dio avrebbe mandato, avrebbero dovuto cercare una nuova patria in terra straniera. A guidarli sarebbe stato un bue a lui sacro che, sostando, avrebbe segnato la meta. Quale mistico bovaro e, forse, capo religioso della spedizione, la scelta divina cadde su un certo Comio Castronio.
Quale via indicasse il bue agli emigranti non è detto dagli storici che riportano la leggenda. Questa aggiunge solo che l’animale li condusse nella terra degli Opici, il Molise, e infine si arrestò dove era un colle chiamato Sannio. Il colle fu il centro della nuova tribù che da esso avrebbe poi preso nome. In realtà del nome Sannio si davano anche altre spiegazioni: alcuni volevano che esso derivasse da “saunion”, un particolare tipo di lancia; altri avevano visto il legame tra il nome dei Sabini e quello dei Samnites (Plin. N.H. in, 106). Una primavera sacra sarebbe anche all’origine dei Marrucini, derivati dalla tribù dei Marsi dai quali avrebbero preso il nome. Ma migliore testimonianza si ha per quella dei Picentes, originariamente anch’essi Sabini, mossi dalle loro sedi primitive sotto la guida di un picchio che si era appollaiato sulle loro insegne.
(Tratto da – V. Cianfarani, L. Franchi dell’Orto, A. La Regina: “Culture Adriatiche Antiche di Abruzzo e Molise” – De Luca Editore Roma 1978)
(4) G. DE SANCTIS – Storia dei Romani Vol.1 – La Nuova Italia Editrice – Firenze 1907 – 1979
(5) Cales (CE) – Località “Il Migliario”. Olla con coperchio ed anse a ponticello derimenti in protomi di animale. Sepoltura femminile a inumazione. Prima metà del VI secolo a.C.